AMLETO - Chi è costui che sbràita con tanto sfoggio e per dire un
dolore chiama le stelle erranti, anzi le blocca e le lascia di stucco?
Sono io, Amleto il Danese.
(Atto V, sc. 1)
«…e della viziosa corte di Danimarca resti solo la memoria di un
solecismo, una lezione deterrima sul codice abbandonato nella deserta
biblioteca degli astri…»
(G. Manganelli,
Un amore impossibile,
in
Agli dèi ulteriori,
Torino 1972)
La «sfigurata gioia» con cui Claudio fa
mostra di accettare la regina vedova per moglie e lo scettro dello Stato
orbato dal suo monarca, potrebbe essere figura retorica adatta a
descrivere la condizione psicopolitica di tutta la Nazione: tanto più che,
come Rosencrantz e Guildenstern sanno dire, il corpo del Re fa tutt’uno
con quello dello Stato («Mai da sé, senza un lamento di tutti, sospirò un
re», Atto III, sc. 3).
Rumoreggia spesso la Danimarca attorno
agli spalti di Elsinore, e si sovrappongono suoni cupi e giubili: è – come
lo Spettro? - uno stato torvo e alacre, tutto preso strenuamente a
forgiare corazze e cannoni: un torvo regno «senza domeniche» (Atto I,
sc. 1) ossessionato dalla minaccia di tener botta alla Norvegia già
pronta a vendicare la guerra appena persa (ultimo capolavoro del re
defunto).
Ed è anche un paese almeno crassamente
festaiolo, che con Claudio pare aver trovato finalmente il re che si
merita. Non c’è occasione che Claudio trascuri per brindare e far
scoppiare salve di cannone, e quindi, commenta livoroso il giovane
principe in lutto, «gozzoviglia» e «stravizio» in ogni dove: «Queste
stordite orge, a oriente e a occidente / Ci espongono alla maldicenza e al
ludibrio / Delle altre nazioni. Ci chiamano ubriaconi, / E dandoci di
porci insudiciano il nostro onore» (Atto I, sc. 4), non perdonando
la crapula per motivo alcuno: né la vittoria contro la Norvegia né tanto
meno le nuove nozze regali. – Voci che ha intercettato a Wittenberg? Però
vuol insegnare al casto Orazio «a bere forte»
(Atto I, sc. 2), a riprova che anche per un principe, da tutti
tenuto per intelligente, esecrabili sono sempre le orge degli altri, e la
Danimarca inaccettabile più «prigione» di un guscio di noce (Atto II,
sc. 2).
Che il Danese riscuota pessima fama
perfino tra gli indigeni lo prova – un leitmotiv! – l’uso dell’appellativo
in tutto il dramma: cosa pare aver detto lo Spettro ad Amleto? «Non c’è in
tutta la Danimarca un furfante / Che non sia una canaglia matricolata.» E
perfino Orazio, per una volta perspicuo, non può esimersi dal far notare:
«Mio signore, non c’è bisogno che uno spettro venga dalla tomba per dirci
questo.» (Atto I, sc. 5).
Quando pare che Laerte stia per
irrompere a corte sull’onda del furor di popolo, la Regina commenta:
««falsi cani danesi!» (Atto IV, sc. 5); e Amleto uccide alla fine
Claudio dandogli dell’«incestuoso, dannato danese» (Atto V, sc. 2).
E infine lo stesso Orazio, vedendo moribondo il suo amico del cuore, pensa
subito di bere anche lui dalla coppa avvelenata essendo «Io sono più un
antico romano che un danese» (Ib.).
Eppure, come cita il nostro esergo,
Amleto quando fa il terribile si dice Danese, e la stessa finta scommessa
sul duello tra Laerte e il principe, viene presentata dallo stesso Amleto
come «la scommessa francese contro la danese» (Atto V, sc. 2).
Facile pensare che, quando i personaggi
si danno l’un l’altro del danese peggio che a Varese
dell’extracomunitario, chi parla è un inglese travestito che recita per
inglesi (ai quali del resto si accenna come al popolo gemello: «Amleto -
…E perché l'hanno spedito in Inghilterra? - Becchino: Ma perché è pazzo.
Laggiù ritrova la ragione, o se no, lì non fa differenza.», Atto V, sc.
1).
Magari c’è un gioco di parole già nel
nome della «Danimarca rozza e birrosa» (G. Manganelli, Op. cit.):
La Denmark, lo nota Nemi D’Agostino nella bella edizione che ha
curato (Milano 1999) è una Dan-mark: una marca del danno,
un feudo marginale del «marcio» («rank») e del peggio, una Dan-rank: «Something
is rotten in the state of Denmark.» è la battuta che rende immortale
Marcellus (Atto I, sc. 1). E tanto basti.
Così è: «Non possiamo cambiare
patria. Allora cambiamo argomento.» (J. Joyce, Ulisse).
P.S. Una coda troppo gradevole per farne
a meno: «…forse il più grande di tutti, il danese eterno e mai esistito,
il principe Amleto. Ricordate? Già nelle prime scene, Amleto si indigna
perché nella reggia in lutto guerrieri – i vichinghi della fine – bevono e
ridono empiamente. Amleto osserva che «c’è del marcio in Danimarca».
Questa osservazione fa ovviamente di Amleto il primo riformista della
storia danese, precursore delle cooperative e della pedagogia popolare»
(G. Manganelli, L’isola pianeta, Milano 2006). Il lapsus, come
tutti abbiamo provato, tra Marcello e Amleto è quasi inevitabile, e si
corregge in un lampo. Il resto è arte.