"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 12  settembre 2007

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 3. Danimarca dalle sfigurate gioie

 

 

 

 


 

AMLETO - Chi è costui che sbràita con tanto sfoggio e per dire un dolore chiama le stelle erranti, anzi le blocca e le lascia di stucco? Sono io, Amleto il Danese.

(Atto V, sc. 1)

 

«…e della viziosa corte di Danimarca resti solo la memoria di un solecismo, una lezione deterrima sul codice abbandonato nella deserta biblioteca degli astri…»

(G. Manganelli, Un amore impossibile, in Agli dèi ulteriori, Torino 1972)

 

 

La «sfigurata gioia» con cui Claudio fa mostra di accettare la regina vedova per moglie e lo scettro dello Stato orbato dal suo monarca, potrebbe essere figura retorica adatta a descrivere la condizione psicopolitica di tutta la Nazione: tanto più che, come Rosencrantz e Guildenstern sanno dire, il corpo del Re fa tutt’uno con quello dello Stato («Mai da sé, senza un lamento di tutti, sospirò un re», Atto III, sc. 3).

 

Rumoreggia spesso la Danimarca attorno agli spalti di Elsinore, e si sovrappongono suoni cupi e giubili: è – come lo Spettro? - uno stato torvo e alacre, tutto preso strenuamente a forgiare corazze e cannoni: un torvo regno «senza domeniche» (Atto I, sc. 1) ossessionato dalla minaccia di tener botta alla Norvegia già pronta a vendicare la guerra appena persa (ultimo capolavoro del re defunto).

 

Ed è anche un paese almeno crassamente festaiolo, che con Claudio pare aver trovato finalmente il re che si merita. Non c’è occasione che Claudio trascuri per brindare e far scoppiare salve di cannone, e quindi, commenta livoroso il giovane principe in lutto, «gozzoviglia» e «stravizio» in ogni dove: «Queste stordite orge, a oriente e a occidente / Ci espongono alla maldicenza e al ludibrio / Delle altre nazioni. Ci chiamano ubriaconi, / E dandoci di porci insudiciano il nostro onore» (Atto I, sc. 4), non perdonando la crapula per motivo alcuno: né la vittoria contro la Norvegia né tanto meno le nuove nozze regali. – Voci che ha intercettato a Wittenberg? Però vuol insegnare al casto Orazio «a bere forte» (Atto I, sc. 2), a riprova che anche per un principe, da tutti tenuto per intelligente, esecrabili sono sempre le orge degli altri, e la Danimarca inaccettabile più «prigione» di un guscio di noce (Atto II, sc. 2).

 

 

 

Che il Danese riscuota pessima fama perfino tra gli indigeni lo prova – un leitmotiv! – l’uso dell’appellativo in tutto il dramma: cosa pare aver detto lo Spettro ad Amleto? «Non c’è in tutta la Danimarca un furfante / Che non sia una canaglia matricolata.» E perfino Orazio, per una volta perspicuo, non può esimersi dal far notare: «Mio signore, non c’è bisogno che uno spettro venga dalla tomba per dirci questo.» (Atto I, sc. 5).

Quando pare che Laerte stia per irrompere a corte sull’onda del furor di popolo, la Regina commenta: ««falsi cani danesi!» (Atto IV, sc. 5); e Amleto uccide alla fine Claudio dandogli dell’«incestuoso, dannato danese» (Atto V, sc. 2). E infine lo stesso Orazio, vedendo moribondo il suo amico del cuore, pensa subito di bere anche lui dalla coppa avvelenata essendo «Io sono più un antico romano che un danese» (Ib.).

 

Eppure, come cita il nostro esergo, Amleto quando fa il terribile si dice Danese, e la stessa finta scommessa sul duello tra Laerte e il principe, viene presentata dallo stesso Amleto come «la scommessa francese contro la danese» (Atto V, sc. 2).

Facile pensare che, quando i personaggi si danno l’un l’altro del danese peggio che a Varese dell’extracomunitario, chi parla è un inglese travestito che recita per inglesi (ai quali del resto si accenna come al popolo gemello: «Amleto - …E perché l'hanno spedito in Inghilterra? - Becchino: Ma perché è pazzo. Laggiù ritrova la ragione, o se no, lì non fa differenza.», Atto V, sc. 1).  

Magari c’è un gioco di parole già nel nome della «Danimarca rozza e birrosa» (G. Manganelli, Op. cit.): La Denmark, lo nota Nemi D’Agostino nella bella edizione che ha curato (Milano 1999) è una Dan-mark:  una marca del danno, un feudo marginale del «marcio» («rank») e del peggio, una Dan-rank: «Something is rotten in the state of Denmark.» è la battuta che rende immortale Marcellus (Atto I, sc. 1). E tanto basti.

Così è: «Non possiamo cambiare patria. Allora cambiamo argomento.» (J. Joyce, Ulisse).

 

 

P.S. Una coda troppo gradevole per farne a meno: «…forse il più grande di tutti, il danese eterno e mai esistito, il principe Amleto. Ricordate? Già nelle prime scene, Amleto si indigna perché nella reggia in lutto guerrieri – i vichinghi della fine – bevono e ridono empiamente. Amleto osserva che «c’è del marcio in Danimarca». Questa osservazione fa ovviamente di Amleto il primo riformista della storia danese, precursore delle cooperative e della pedagogia popolare» (G. Manganelli, L’isola pianeta, Milano 2006). Il lapsus, come tutti abbiamo provato, tra Marcello e Amleto è quasi inevitabile, e si corregge in un lampo. Il resto è arte.

 


 

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